I taccuini di Tarrou – 448 – L’ateo

Quando Dostoevskij dice, nei Demòni, attraverso Tichon, il confessore di Stavrogin, che l’ateo è «sul penultimo scalino in alto prima della perfettissima fede», dimostra di aver compreso l’essenza più intima, profonda e drammatica dell’ateismo, e questo perché egli stesso era un ateo; un ateo e, al tempo stesso, il più grande cristiano che io abbia mai conosciuto – l’uomo, scisso, diviso per natura non è mai soltanto una cosa: nel santo si nasconde l’assassino, e viceversa, e solo questa natura doppia, capace di accogliere in sé le tenebre e la luce, il male e il bene permette all’uomo, a qualunque uomo, di redimersi, di risorgere, perché le uniche resurrezioni possibili sono quelle in vita, come insegna il caso di Raskol’nikov; dell’aldilà il mondo non se ne fa niente.

Nessuno come l’ateo, neppure il santo, ha in sé un disperato bisogno di fede, nessuno come l’ateo ha in sé un disperato bisogno di aggrapparsi, come un naufrago, a qualcosa che trascenda e salvi la sua disperata condizione umana. Sente tutto l’insostenibile peso della propria solitudine, della propria assurdità, l’ateo, e se ne vorrebbe liberare, per poter tornare a vivere.

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